“Cantano flebilmente gli uccelli come se piangessero il giorno che muore…”
Così Ugo Foscolo raccontava nel suo “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, il momento della cena di una famiglia residente nelle campagne venete, in una tiepida sera di maggio, con le donne intente a servire la minestra di “bruscandoli”, raccolti nei campi durante il pomeriggio.
Il riferimento di Foscolo è appunto al “bruscandolo”, termine dialettale ferrarese per indicare i giovani germogli del luppolo, detti in altre regioni del Nord luertìs o lovertìn, che si raccolgono in primavera tra le siepi e negli incolti. Hanno un gusto gradevolmente amarognolo, simile all’asparago, (la pianta è la stessa coltivata come aromatizzante nei Paesi produttori di birra) e li si usa per farne frittate, minestre e risotti.
A sottolineare le caratteristiche ipocaloriche di questo alimento, si ricorda il modo di dire di chi, incontrando una persona particolarmente magra, la appellava così: “Mo ss’a màgnat, di bruscànduli?” (“Ma cosa mangi, dei bruscandoli?”).
Un tempo, nei giorni di mercato, si vedevano ragazzini che vendevano piccoli mazzetti di bruscandoli, ai crocicchi delle strade di campagna.